Calvi e Sparanise contro l’usurpazione del Demanio di Calvi

Nel Ragguaglio istorico della città e Diocesi di Calvi, Mons. Giuseppe Maria Capece Zurlo ci riferisce dell’interessamento già di Carlo III di quello che sarà il Demanio di Calvi a causa della  passione preferita dei reali borbonici, la caccia, prima che nel prosieguo tale dinastia se ne impadronisse gradualmente senza il consenso dei comuni di Calvi e Sparanise, i quali avrebbero dato luogo ad un lungo contenzioso nei confronti dei  Borbone, che sarebbe proseguito anche dopo l’Unità d’Italia.  Mons. Capece Zurlo (alla cui opera collaborarono uomini dotti del tempo come d. Antonio di Cesare di Camigliano, il Can. Teol. D. Pietro Ronconi, il canonico penitenziere d. Niccolò Leardi e il canonico d. Mattia Simonetti, tutti e tre di Sparanise) scrive che ” giunta all’orecchio del Re tal notizia, mandò ordine al Consigliere di Capua che era allora il Duca Francesco Sciarelli, che si fosse informato che caccia era nel Bosco di Calvi”.
Quando ebbe risposta che non vi erano più di cinque o sei cinghiali, non contento di tale notizia, mandò due suoi capocaccia di fiducia a chiedere direttamente al sindaco di Calvi Giovanni Veltre, il quale diede l’assicurazione che in tale Bosco di Calvi, il re avrebbe trovato dei cinghiali per poter soddisfare la sua passione.
Così dal 1750 Carlo III veniva a cacciare nel Bosco di Calvi una volta all’anno e successivamente più frequentemente dopo aver fatto “ venire da Bojano dieci cinghiali consistenti in un verro, tre scrofe, cinque porcellotti e un castrato, e con questi, mediante la debita assistenza del Veltre, popolò fra poco spazio di tempo il nostro Bosco”.
La popolazione dei Calvesi poteva, pertanto, attendere il re per presentargli suppliche. Infatti, riporta Mons. Zurlo “Questo frequentare che il Re faceva nel nostro bosco apportò non poco utile ai cittadini, sì perché senza verun incomodo gli presentarono suppliche e ne riportavano grazie. […] Il Re prese maggior affetto a tal caccia e incominciò a rimirare con maniere speciali i paesani e soprattutto quelli di Sparanise con la buona guida del Veltre Giovanni, avvocato e sindaco di Sparanise”.

Con la partenza di Carlo III per la Spagna e l’abdicazione in favore del figlio Ferdinando IV, che aveva solo otto anni, le cose gradualmente cambiarono.
Carlo III aveva provveduto, prima della partenza, a che il Bosco fosse tenuto in buone condizioni, soprattutto in relazione a ciò che riguardava il ” divertimento” della caccia, facendo “espurgere l’alveo al ben noto rivo di Calvi che nei temporali principalmente d’inverno allagava le erbe ed il Bosco intorno al quale si è fatto un argine portentoso e ciò affinché non vi entrassero animali e disturbassero la caccia”. Iniziata da   Ferdinando IV, ma messa in atto soprattutto da Ferdinando II, sarebbe iniziata una  una graduale opera d’usurpazione del Demanio di Calvi, tanto che il re arrivò a costituire un maggiorasco per i suoi due figli. Infatti, nel 1832 Ferdinando II si appropriò interamente del Demanio di Calvi per costituire un maggiorasco per i suoi figli secondogeniti, sebbene i demani comunali fossero considerati inalienabili”. Il sindaco di Sparanise, già il 13 settembre del 1832, riferiva all’Intendente che “ i decurioni non si volevano congregare per deliberare la rinuncia al diritto di legnare”.

Alcuni documenti, contenute nel testo “Il demanio di Calvi” di Paolo Mesolella, comunicano anche i sentimenti espressi dai due comuni per una “tirannia sofferta 70 anni”, come scrisse il sindaco di Sparanise Annibale Ranucci il 23 dicembre 1860 a nome dell’intero Consiglio Comunale. Negli anni dopo l’Unità  i sindaci di Calvi e di Sparanise chiesero  giustizia più volte a Vittorio Emanuele per i torti subiti dal precedente regime, anche se le speranze di riottenere il Demanio furono disattese. In effetti, La Real Casa Borbonica era succeduta nell’affitto del Demanio di Calvi al barone Luigi Zona nel 1772. Il contratto era durato fino al 18 ottobre 1779, protraendosi per ulteriori dieci anni.
 Il figlio Ferdinando IV aveva intrapreso una graduale opera d’usurpazione del Demanio di Calvi, finché Ferdinando II arrivò a costituire un maggiorato per i suoi due figli. Fu con  Decreto Regio del 12 gennaio 1832 che  il Demanio caleno fu  affidato in una parte al settimogenito figlio di Ferdinando IV, Gaetano Maria Federico, conte di Girgenti, e per l’altra al Conte di Castrogiovanni. I comuni di Calvi e di Sparanise furono dunque spogliati del loro Demanio con due atti, a cui si opposero con determinazione. Con il primo atto, datato 28 settembre 1791, Ferdinando IV, nonostante il voto contrario delle due Università, da “affittatore” aveva preteso di diventare “enfiteuta” (l’enfiteusi è un diritto reale su un fondo altrui che attribuisce al titolare “enfiteuta” gli stessi diritti che avrebbe il proprietario, “concedente” sui frutti, sul tesoro e sulle utilizzazioni del sottosuolo). Il secondo atto, datato 1832, rappresentò l’atto più grave, in quanto si trattava di  una vera e propria appropriazione indebita, dato che  Ferdinando II, pur sapendo che i demani comunali erano da considerare inalienabili, costituì un maggiorato per i suoi figli. Il Demanio di Calvi divenne prevalentemente un sito di caccia, destinato al solo divertimento dei Borbone, che vi costruirono un Casino Reale con il pianterreno destinato ai contadini, mentre il primo piano era riservato all’abitazione del Re e dei cortigiani. Con la caduta dei Borbone, i comuni di Calvi e Sparanise reclamarono il possesso del Demanio, supplicando inutilmente anche il re Savoia. A tal punto ai due comuni non rimaneva che la scelta di ricorrere in giudizio.

Nel libello Per Calvi e Sparanise contro Demanio e Casa Reale, pubblicato nel 1888 da Francesco Saverio Correra e Domenico Di Roberto, e conservato nel Museo Campano di Capua, è ripercorsa tutta la storia dei tentativi messi in atto dai  due comuni per contrastare gli atti di sopruso da parte della Real Casa Borbonica. In relazione al contratto del 1791, gli avvocati Correra e De Roberto evidenziavano che “il re, quando contratta, è un privato e non un sovrano, è soggetto di conseguenza a tutti i vincoli e alle norme di legge”. Deceduto Ferdinando IV, terminarono le caccie reali, ma la Casa Reale mantenne il possesso del Demanio, e sotto il regno di Ferdinando II le cose andarono ancora peggio. Dopo l’atto di usurpazione del 1832, il re,  di sua autorità, fece recidere il bosco e dissodare la terra per seminarla, abolendo di fatto gli usi civici del legnare, nonostante le deliberazioni del 27 novembre 1832 e del 27 luglio 1840 da parte del Comune di Sparanise, le quali scongiuravano la dissodazione del Bosco.

Decaduta la dinastia borbonica, in data 23 dicembre 1860, il Sindaco Annibale Ranucci scriveva testualmente a Vittorio Emanuele: “L’anno 1860, il giorno 23 dicembre nella camera decurionale di Sparanise, riunitosi il decurionato nel numero di membri prescritti dalla legge, sotto la presidenza del sindaco Signor Annibale Ranucci ed in persona dei decurioni D. Giulio Ricca, D. Ambrogio Leardi, D. Carlo Leardi, D. Girolamo Rossone, D. Carlo Mesolella, D. Tommaso Compagnone, D. Pietro Fusco, D. Luigi Grande, D. Gaetano Ricca, ad oggetto di delibera della devoluzione del dominio utile del Demanio di Sparanise e Calvi, censito con istrumento del 1791 a Ferdinando IV, visto il detto istrumento del 28 settembre 1791 nonché l’atto parlamentare del 14 marzo 1790 fatto dalle città di Calvi e Sparanise, confidando che la censuazione di detto Demanio fatto dai due Comuni a favore di esso Ferdinando IV, ripugna con la volontà e gli interessi di essi Comuni[…]considerando che la venuta di Vittorio Emanuele Re d’Italia debba segnare un termine della prepotenza e degli abusi tra i quali deve venir enumerata la censuazione in parola, riguardata da Sparanise e Calvi come una vera e propria tirannia sofferta per lo spazio di 70 anni […] Per tali motivi il decurionato delibera che si demandi la devoluzione del demanio utile a favore di essi Comuni e che tale domanda si faccia amministrativamente e diretta a Sua Maestà Vittorio Emanuele, per l’organo del Sig. Governatore della provincia di Terra di Lavoro.” Ripercorrendo lo stesso iter, la lettera del sindaco di Calvi Demetrio Zona, a nome dell’intero consiglio, poneva ancora di più l’accento nel sottolineare i soprusi e la tirannia subìti per 70 anni dalla Real Casa Borbonica, precisando come la Casa Reale della passata dinastia ” affittando quelle terre così ubertose ha ritratto un prodotto immenso in confronto del meschino annuo canone che si paga ai due comuni i quali sono privi di rendite[…] per mancanza di strada non vi è commercio, per mancanza di istruzione si vive nell’ignoranza e la miseria ed il mal costume trionfano.” La conclusione della lettera rimarcava come “la Provvidenza abbia voluto infin metter termine ai nostri mali”, e con l’esplicita considerazione “dell’enorme lesione arrecata agli interessi” delle due cittadine per quelle terre del Demanio sottratte per “prepotenza” e tenute nello stato di “totale avvilimento”. In tal modo i due comuni di Calvi e Sparanise confidavano in una comprensione da parte del nuovo re, ma le speranze furono disattese, in quanto il contenzioso si protrasse fino ad un “compromesso bonario” tra il governo italiano e i due comuni, come attestano la delibera del Comune di Calvi del 26 maggio 1892 e quella del Comune di Sparanise del 12 dicembre dello stesso anno.

Solo nel 1919 il re d’Italia, tramite una lettera diretta al Presidente del Consiglio dei Ministri, rinunciò la dominio utile su alcuni beni, tra cui l’ex tenuta borbonica. Il re si dimetteva dalla censuazione per cui il Demanio sarebbe dovuto ritornare ai Comuni. Invece, una lettera della Real Casa informò i Comuni della cessione del Demanio all’Opera Nazionale Combattenti. Quest’ultima offrì ai Comuni delle rate di canone, ma tale offerta fu rifiutata, e i Comuni continuarono a rivendicare il diritto di riavere il Demanio, soprattutto per evitarne la decadenza. Il resto è cronaca recente di graduale decadenza, di lento e incessante abbandono.

Bibliografia:

Mons. Giuseppe Maria Capece Zurlo- Ragguaglio istorico della città e della diocesi di Calvi, 1773.

Paolo Mesolella- Il demanio di Calvi, Il Casino, La cappella reale e altre amenità calene- Spring Edizioni, 2008- Capitolo III: 200 anni di lotta contro il Re per il possesso del Demanio; Capitolo XI: Documenti