La festa di Sant’Antuono a Napoli tra storia, tradizione e aneddoti

La festa di Sant’Antonio Abate, chiamato comunemente “Sant’Antuono” per differenziarlo dal santo padovano, può vantare a Napoli una lunga tradizione di testimonianze anche letterarie.

Come è noto, si celebra il 17 gennaio e fino ad alcuni decenni fa era talmente sentita nei quartieri popolari, che non sempre si faceva attenzione ad arrecare involontariamente qualche danno ad altri nell’intento di “buttare sul fuoco” roba considerata inutile dai piani alti degli edifici popolari per alimentare la “lampa” del santo.

La tradizione vuole che un notaio di Santa Margherita a Fonseca abbia equivocato l’esortazione “menate menate”, ossia il  “buttate buttate”, tanto da scaraventare nel fuoco la moglie.

E’ probabile che si tratti di un racconto di pura fantasia popolare, ma in qualche testo è stato tramandato come un vero tentato omicidio, da cui fortunatamente la malcapitata si salvò senza gravi conseguenze.

Quella dei falò era una tradizione talmente radicata che chi si opponeva timoroso di un eventuale danno se la cavava al meglio con una raffica di parolacce e fischi assordanti.
Quando un densissimo fumo penetrò nell’appartamento del nobile don Achille di Via Conte di Mola, lui non solo perse la calma, ma anche la reputazione e il rispetto di cui aveva goduto per anni.

Il portinaio che aveva appiccato il falò nel giorno del santo, non aveva preso le dovute precauzioni, suscitando pertanto le invettive di don Achille contro un “Sant’Antuono pulcinella”. A questa “blasfema” ed insopportabile insolenza, i popolani radunati intorno al fuoco reagirono con  bordate di fischi ed insulti che compromisero per lungo tempo la reputazione del nobiluomo. Salvatore di Giacomo ne ha immortalato l’episodio.

Oltre ad essere  patrono del fuoco, Sant’Antonio Abate è venerato anche come protettore degli animali. In tempi più lontani i sacerdoti si recavano nelle campagne per benedirli, lasciando ai contadini una figurina del Santo che non mancava mai all’ingresso dei cascinali o delle case coloniche. In seguito si iniziò gradualmente a portare gli animali davanti alla Chiesa di Sant’Antonio Abate, tutti agghindati a festa o “ mpernacchiati”, come si è solito dire a Napoli. Un anonimo cronista degli inizi del Novecento così ci ha tramandato lo svolgersi della cerimonia: “All’alba, quando ancora le ombre della notte combattono con la bella luna sorgente, un corteo di popolani si recò alla casa dell’abate Cinque, in via Forìa, e, alla luce dei bengala, accompagnò il vecchio prete in una vettura ove era stata anche deposta la statua d’argento che l’abate aveva già dal 6 gennaio rilevata dal Tesoro del Duomo e teneva presso di sé in casa.

Per la storia aggiungiamo che la statua è consegnata soltanto dietro deposito cauzionale di quattordicimila lire in contanti o cartelle di rendita italiana al portatore, oppure con la forma a garanzia di persona solvibile, come fece il reverendo Cinque. Nel giorno della terza festa di Pasqua, la statua ritorna al Duomo ma, frattanto, ogni sera il buon Abate se la portava gelosamente a casa. Così, ogni anno, dal 1870, da quando il reverendo Cinque è a capo dell’Abbazia di Sant’Antonio”.

La Chiesa di Sant’Antonio Abate si trova in fondo a via Foria, e si vuole fondata, con l’annesso ospedale, da Giovanna I d’Angiò sui ruderi di una chiesetta già esistente per volere di Roberto d’Angiò all’inizio del XIV secolo.

L’ospedale ricoverava solo gli affetti da “fuoco sacro”, scientificamente noto come “Herpes zoster”, e comunemente detto “fuoco di Sant’Antonio” , una malattia virale a carico della cute e delle terminazioni nervose. I monaci erano soliti curare gli ammalati con un farmaco a base di grasso di maiale per alleviare le sofferenze della malattia, già citata dal vescovo Rodolfo nel suo “De censibus” del 993.

I monaci si occuparono dell’ospedale fino a quando non arrivarono gli aragonesi, che li bandirono perchè considerati troppo legati ai francesi. Pertanto, nel 1480, sia la chiesa che l’ospedale furono affidati al cardinale Giuliano della Rovere, fino a quando Clemente XIV non concesse tutto il complesso ai frati costantiniani.