L’incontro tra Domenico Lopresti e Benedetto Musolino nel romanzo “ Noi credevamo”

Domenico Lopresti, protagonista del romanzo storico “ Noi credevamo”, è un avo dell’autrice, il cui vero nome è Lucia Lopresti. A tale romanzo si è ispirato il regista napoletano Mario Martone per il suo omonimo film quale  omaggio ai  repubblicani risorgimentali. Infatti, Mario Martone esplicita che uno degli elementi importanti che “il film deriva dal libro di Anna Banti è la radicalità repubblicana.”

Domenico Lopresti, benché fosse una figura storica  reale,  è pressoché assente dalla storiografia  concernente i patrioti risorgimentali. Alcune elementi della sua biografia sono presenti nell’opera in due volumi  “ I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto” di Attilio Monaco.

Domenico Lopresti è un affiliato ai Figliuoli della Giovine Italia, il movimento meridionale fondato da Benedetto Musolino. Nel romanzo Domenico Lopresti si mostra un repubblicano irriducibile, e per la sua attività di cospiratore  è imprigionato prima a Procida, poi a Montefusco e infine a Montesarchio. Dopo dodici anni di prigione, riacquistata la libertà, si mostra deluso e disilluso dell’ esito dell’Unità, ma decide di riporre ancora speranza in Giuseppe Garibaldi nel 1862.  La  battaglia di Aspromonte e la conseguente sconfitta pone fine ai suoi sogni e ai suoi ideali.  

Il regista Mario Martone ravvisa nell’incontro   tra Domenico Lopresti e Benedetto Musolino, eletto deputato al Parlamento,  “ pagine bellissime” di cui si pregia il romanzo storico di Anna Banti, ma a cui “, per esigenze narrative”, non fu possibile far riferimento nel film.

In effetti, i dodici anni di prigione di Domenico Lopresti nelle tre carceri borboniche furono conseguenza della sua  cospirazione in quanto aderente ai  “Figliuoli della Giovane Italia” meridionale di Benedetto Musolino. Dopo che il Musolino è diventato parlamentare del Regno,  Domenico Lopresti ravvisa la necessità di ritornare a Pizzo Calabro nell’estate del 1861 per incontrarlo e comprendere le motivazioni per cui, nonostante gli insuccessi parlamentari, non avvertiva la decisione di dimettersi. Non poteva trattarsi di ambizione, di cui Musolino non aveva precedentemente mai mostrato di essere affetto.

Il palazzo di Musolino, prima fastoso e adesso quasi ridotto ad un rudere, riporta alla mente di Domenico Lopresti il sacrificio nel 1848 del vecchio Domenico Musolino e di suo figlio Saverio, rispettivamente padre e fratello di Benedetto, assassinati dalla repressione borbonica  proprio in tale abitazione per la partecipazione di Benedetto al moto rivoluzionario, a cui dava il suo apporto quale figura di primo piano.

Benedetto Musolino, dopo tanti anni, appare quasi “ la vivente immagine del padre Domenico Musolino”,  e accoglie Domenico Lopresti  con affettuosa melanconia, ricordandogli come lo avesse cercato e atteso prima a Napoli sulle barricate e poi a Cosenza, mentre lui aveva voluto seguire Giuseppe Ricciardi, scelta che  era costata al Lopresti la cattura  in Abruzzo. “ Povero Micuccio, 12 anni! Lo seppi a Parigi” –esclama spontaneamente Musolino “. Avevano, in fondo, tante cose da raccontarsi, data la lunga separazione dal 1848, ma Domenico, con la mente assorta alla  situazione presente di trovarsi davanti un parlamentare repubblicano del Regno, trova   la ” forza”  di pronunciare  : “Voi in Parlamento avete  il dovere di illuminare il Paese sul come si tradiscono le sue speranze, il nostro Paese intendo.[…] Come potete rimanerci voi vecchio repubblicano senza urlare di sdegno?”

Non ci fu quella  “ rispostaccia” che il Lopresti s’attendeva, ma con una sorta di sofferenza Musolino replica che, pur avendo pronta la lettera di dimissione, ciò avrebbe avuto solo l’esito di “ far piacere a certe mummie”. “Li disturbo e anche questo è un successo”. Inoltre, riferisce al Lopresti di aver approntato un “progetto di colonizzazione agricola interna”, non propriamente rivoluzionario, ma, mentre si dedica a trovarlo per mostrarlo a Domenico, il Lopresti si accorge che l’incontro  sta diventando imbarazzante. Avvicinandosi alla finestra che dava su quello che era stato il giardino e che adesso si mostrava quale un cumulo di “erbacce, cocci, calcinacci anneriti”, Domenico si accorge che “ erano le tracce del saccheggio e del bruciamento del 1848”, interiorizzando con le lacrime agli occhi di essere comportato quale un “ egoista stolto e rancoroso”.

Tuttavia, nel prosieguo, Domenico Lopresti incalza sulla questione del perché, mentre lui e altri pativano il carcere, non vi fosse stata da parte dei “democratici” una migliore organizzazione,  coerente con gli intenti originari della loro Società dei Figliuoli della Giovane Italia.  

L’ incontro si rivela  nel prosieguo gradualmente più disagevole per entrambi e, prima che la situazione possa trascendere, dopo che  Lopresti ha accennato alquanto veementemente alla questione  dei  Plebisciti, a cui non si era riusciti ad opporsi,  il Musolino replica con pacatezza a Domenico che non basta il coraggio,  l’intelligenza e l’energia degli anni giovanili,  ma necessita l’esperienza,  considerare i  “dati” reali senza addentrarsi nell’incapacità pratica oppure in un perenne astratto  idealismo: “ La nostra Setta era un gioco da ragazzi. Occorre dimenticarsela. Altri tempi, altri mezzi.”

Prima di congedarsi, pur con garbo e cortesia, entrambi si rendono conto che gli anni dal 1848 al presente 1861, date le diverse esperienze,  hanno determinato  incomprensione e incomunicabilità. Domenico Lopresti con tanto rammarico interiorizza di  essere “ certo  di averlo perduto: in seguito, difatti  scambiammo soltanto qualche lettera, qualche biglietto d’augurio anodino.

Bibliografia:

Mario Martone- Noi credevamo- Bompiani, 2010

Anna Banti- Noi credevamo- Arnoldo Mondadori Editore- Milano, 2010

ANNA BANTI