L’omaggio di Benedetto Croce al brigante Angelo Duca

E’ Benedetto Croce a rendere giustizia a colui che può a pieno titolo essere annoverato tra i briganti che davano alle loro azioni ribelli un’impronta “sociale”. Riguardo alla “ processura”, ossia l’inchiesta che fu compilata sul “ teatro stesso” delle gesta di Angelo Duca, detto Angiolillo, furono compilate ben sette grossi volumi dal consigliere Paternò, che fu inviato dai Borbone per la repressione di tale brigantaggio. Le carte importanti, che ci avrebbero dato una luce completa sulla condizione storico-sociale dell’entroterra di Avellino, Salerno e della Basilicata nella seconda metà del Settecento, furono fatte bruciare nel 1859 dal principe di Belmonte, soprintendente del Grande Archivio di Napoli. In particolare tale documentazione perduta ci avrebbe consentito il contesto e le ragioni che avevano portato tanti contadini a seguire tale brigante. Inoltre, facendo riferimento all’opera di Pompeo D’Aiutolo, Benedetto Croce sottolinea che il brigantaggio, incarnato da Angelo Duca e da coloro che lo seguivano, era mirato a distinguersi nettamente dal brigantaggio di delinquenza comune, che Angiolillo non solo respingeva, ma verso cui prendeva una posizione di decisa ripugnanza, usando il termine di ” malfattori” nei confronti dei briganti- delinquenti comuni, additandoli altresì alle autorità quando gli si presentava l’occasione.

L’ omaggio di Benedetto Croce ad Angelo Duca detto Angiolillo inizia con tali parole: “Nell’ultimo quarto del secolo decimottavo fu in Napoli oggetto di generale interessamento e finanche di entusiastici fervori un brigante, noto col nomignolo di ” Angiolillo” e che si chiamava Angelo Duca”. Croce si servì criticamente non solo della vasta produzione poetica popolare fiorita sul brigante, ma anche di altre opere, tra cui emerge un poema in tre canti, scritto dal lucano Pasquale Fortunato, che del brigante era stato anche vittima: “questo poema – scrisse in proposito il filosofo- è un prezioso documento: e perché proviene da persona ch’era in grado d’essere bene informata, e di molte cose fu testimone oculare; e per la tendenza critica che vi domina contro Angelo Duca. Il che ci fornisce un utile riscontro colle altre narrazioni, che sono, invece, tutte elogiative”.
Angelo Duca nacque il primo aprile 1734 a San Gregorio Magno, paese del Salernitano. Era un contadino che possedeva animali, come anche un campicello che coltivava, e quindi da considerare un contadino che in quei tempi si poteva considerare agiato. Infatti poteva permettersi di vivere una vita tranquilla, e affidava il piccolo gregge di cui era in possesso alle cure di un ragazzo. Un giorno gli animali invasero le terre di Francesco Caracciolo, duca di Martina. La reazione del guardiano delle terre del duca Caracciolo nei confronti del ragazzo fu violenta con botte a più riprese, che furono riferite ad Angelo Duca dallo stesso ragazzo. Angelo Duca volle chiarire la situazione con il guardiano, in quanto il ragazzo gli aveva riferito che non era riuscito a tenere a bada il gregge, mentre invadeva le terre del Duca Caracciolo. Dalle parole si passò ai fatti con ricorso alle armi e la più che animata discussione terminò con l’uccisione di un cavallo del Duca di Martina.

Come scrive testualmente Croce, ” l’occorso fu riferito al duca di Martina, e con tinte così accese che il bollente barone entrò in furore di vendicarsi dell’audace contadino”, e ” per quel sol delitto principale, ossia per l’uccisione della giumenta, di cento e mille colpe lo fa reo”. Angelo Duca pensò di rivolgersi al Principe di Torella Giuseppe Caracciolo per protezione. ( Giuseppe Caracciolo sarà perseguitato come repubblicano nei mesi della Repubblica Napoletana, condannato a morte con pena commutata in ergastolo perpetuo nell’isola di Favignana, nella tetra fossa di S. Caterina). Con la livrea del Principe di Torella Angelo Duca si presentò per chiedere perdono, ma il duca di Martina rispose che avrebbe avuto soddisfazione solo quando avrebbe avuto la sua testa. Il padre di “Angiolillo” pensò che l’idea migliore fosse di espatriare in Ungheria, ma Angelo non volle e “ la prepotenza di un signore, la nessuna garanzia della giustizia fecero, dunque, dell’onesto Angelo Duca un brigante. E l’opinione pubblica non errava nel considerarlo ingiustamente perseguitato. Così iniziò la sua attività di brigante con una banda propria, di cui facevano parte, tra gli altri, Costantino Rocco, Giuseppe Russo, Gian Giacomo Barberio di San Gregorio, Gian Giacomo Barberio di San Gregorio, Giovanni Gallo di Montemarano e Ciccio Zaccarino di Caposele. Le azioni di Angelo Duca erano ben conosciute nell’entroterra di Salerno e di Avellino, e soprattutto nella Basilicata settentrionale, dove prevalentemente operava. In particolare la sua fama si diffuse a Cassano Irpino, ad Avigliano, a Muro Lucano, a Calitri, Ruoti e Rionero in Vulture. In tali territori Angiolillo era amato in quanto, a differenza degli altri banditi e briganti, proteggeva l’oppresso contro l’oppressore, il povero dal ricco. Si raccontava che bruciasse i registri degli avari usurai per rendere liberi i debitori, che fermasse le carrozze dove viaggiavano “ vescovi e prelati” ai quali toglieva gran parte dei loro averi, richiamandoli alla “povertà evangelica che dovrebbe essere il loro abito”.
Benedetto Croce rileva che “nella folta storia del brigantaggio nelle nostre province, non solo si trovano, di tratto in tratto, gli sparsi elementi di bontà, di generosità, di eroismo, coi quali il Cervantes compose la sua figura ideale, ma s’incontra finanche un brigante, che pare, addirittura, l’incarnazione storica di Roque Guinart. Il Croce si sofferma anche sulla protezione riservata alla banda di Angelo Duca in conventi e monasteri, evidenziando che “ non farà meraviglia poi, a chi conosca lo stato d’allora dei conventi e dei monasteri, specie quelli di provincia, apprendere che in quei luoghi egli trovava la migliore ospitalità, che vi si recava per riposarsi e far baldoria, per curare le ferite, per sottrarsi agli insecutori[…] C’erano sempre apparecchiate mense di ottimi pasti e di vini squisiti; i frati andavano attorno tutti lieti e contenti, ed echeggiavano pel refettorio allegri brindisi ad Angiolillo, a Costantino, a Peppe Russo”.

In effetti, scrive Benedetto Croce “ Angiolillo era un brigante di buona pasta, coraggioso, ingegnoso, e di una certa elevatezza d’animo”. Per sconfiggerlo definitivamente i Borbone decisero di affidarsi ad un “ ministro diligente” nella persona del conte don Vincenzo Paternò, giudice criminale della Gran Corte della Vicaria nel 1783. Alla sconfitta di Angelo Duca concorse il tradimento di uno dei più fidati uomini, il Zuccarino, che guidò le squadre comandate dal tenente Quintana presso il monastero dei Conventuali di Muro, dove sapeva che Angiolillo con i suoi si era appostato. Con Peppe Russo, Angelo Duca riuscì a salvarsi anche dall’incendio del monastero, ma una caduta rallentò la fuga e il giorno successivo Angiolillo e Peppe Duca si trovavano di fronte alla Gran Corte. Condotti a Salerno, si doveva apprestare il processo con valenti avvocati che si accingevano a difenderli. Ben diversa era l’idea del re Borbone, il quale, tramite un biglietto, ordinò che i due fossero impiccati senza alcun forma di processo. Il Russo moriva prima del giorno dell’esecuzione tramite impiccagione, ma fu ugualmente impiccato con Angelo Duca a Salerno.
Poi, scrive Benedetto Croce” troncate le teste e fatti a pezzi i corpi, le teste e le membra furono mandate a esporre nei luoghi ch’erano stati un tempo quelli dei maggiori trionfi dell’eroe di San Gregorio.

Benedetto Croce conclude il suo ricordo del brigante Angelo Duca, catturato e giustiziato a Salerno nel 1784, rimarcando che ” era un brigante, ma, e per la cagione che lo aveva gittato alla campagna e per il suo procedere ardito, abile, leale, mite, caritatevole, lo si teneva degno d’indulgenza”. Tuttavia il filosofo, storico, critico letterario e scrittore abruzzese, innamorato di Napoli, non esita ad evidenziare che “ è da credere, che, spento quello uomo straordinario, la sua banda diventasse un banda delle solite, coi soliti eccessi, e senza quel carattere ideale che vi aveva impresso il suo primo capo”.

Bibliografia:
Benedetto Croce- Il brigante Angiolillo- Osanna Edizioni- 1986