Oltre a Firenze, nella prima metà dell’Ottocento, fu la città di Ravenna a catalizzare l’interesse dei cultori del mito di Dante in quanto vi era presente il suo sepolcro. Pertanto, già dai primi anni dell’ Ottocento e negli anni successivi Ravenna divenne il centro di scrittori, poeti e patrioti, non solo italiani, essendo la sede del monumento funebre del sommo poeta Dante.
Sulla scia di quanto avevano scritto soprattutto l’Alfieri, Monti, Foscolo, Mazzini, anche il poeta inglese George Byron intese dedicare, nel clima del sentimento romantico e patriottico che Dante Alighieri ispirava, un’opera poetica di quattro Canti a cui diede nome “The prophecy of Dante” composta a partire dal 18 agosto 1819, in quei giorni in cui Filippo Mordani scriveva che “ Byron recava con sé un volume delle opere di Dante e, tutto avvolto nei suoi pensieri, passava davanti al monumento ravennate, si scopriva il capo in segno di riverenza”. A tal riguardo Fulvio Conti commenta: “ Questa immagine di Byron che si toglieva riverente il cappello ogni volta che passava dinanzi alla tomba di Dante, quasi fosse una sorta di santo laico a cui dover rendere omaggio, lasciò una traccia duratura nella memoria collettiva dei ravennati”
Lord George Byron, che si trovava in esilio a Ravenna, ospite della sua amante, contessa Teresa Guiccioli, aveva rinunciato ad un progetto poetico più rilevante per celebrare “ la profezia di Dante” in quanto nel luglio del 1820, nel Regno delle Due Sicilie, avevano avuto inizio i primi moti insurrezionali per la rivendicazione della Costituzione, evento che era seguito con attenzione da tutti i patrioti d’Italia. Byron, pertanto, concludeva i primi quattro Canti del poemetto “ The prophecy of Dante”, e inviava una lettera, datata 17 agosto 1820, al suo amico ed editore John Murray affinché il manoscritto fosse stampato “ poiché l’Italia è alla vigilia di grandi eventi”. Lord Byron intendeva comunicare che anche la poesia era in grado di contribuire all’affermazione delle idealità patriottiche e costituzionali, e pertanto i suoi quattro Canti, che celebravano colui che la cultura romantica ottocentesca considerava la somma guida dell’Italianità più sofferta e più pura, ossia l’autore di quella Divina Commedia che lo stesso Byron, allo stesso modo di altri scrittori, poeti e patrioti, recava sovente con sé, identificandosi con lo stesso divino poeta, considerato “ padre” degli Italiani e della loro civiltà.
Lord Byron aveva precedentemente, riassunto all’amico editore Murray, precisamente tramite lettera del 29 ottobre 1819, l’argomento dei circa 600 versi della sua “ Visione” di Dante, che sarebbe diventata “The prophecy of Dante”. In effetti, nell’opera è Dante stesso che racconta in versi e tratta in prima persona, prima della morte, “i temi della storia d’Italia a mò di profezia, come la Cassandra di Licofrone”.
L’ intero primo Canto del poemetto è incentrato sulla tematica del poeta esule, pieno di affetto per Firenze, ma bandito e respinto ingratamente dalla sua città. Avendo subìto conseguentemente l’onta della peregrinazione, emergono poeticamente sentimenti di odio e rancore. In particolare, due metafore bibliche, quella dell’uccello che copre con le sue ali i suoi piccoli per proteggerli e quella della vipera che morde il seno che l’ha nutrita, simbolicamente oppongono l’affetto del poeta all’irriconoscenza della sua città, la quale troppo tardi, si renderà conto di aver scacciato un figlio, reclamando le sue ceneri dopo avergli negato una casa. (versi 76- 119 del primo Canto). Le parole che Lord Byron fa pronunciare a Dante, in effetti, sono profeticamente dure; d’altronde sono i momenti precedenti la morte del “sommo poeta italiano”, che, in relazione all’esilio non può che esprimere spontaneamente …: “ Troppo della mia fu caro il prezzo!/ Nulla è il morir, ma volgere tanto al basso;/ l’ali frenar d’un infinito ingegno;/ vivere in vie ristrette, e in mezzo a gente di ristrette dottrine/; ad ogni comune sguardo vista comun, giro vagabondo/”.
Tuttavia, Il primo Canto si conclude con uno scatto d’orgoglio: “ Di me un esule fecero, non uno schiavo”.
Il Canto secondo introduce il tema dell’Italia asservita allo straniero, e termina con l’incitamento del poeta agli Italiani affinché superino le fazioni interne e trovino, tutti uniti, la forza di spezzare le catene. Unirsi, memori dell’antica virtù, è il vaticinio di Dante, facendo riferimento alla bellezza di quella che sarà finalmente una “Patria”.
I successivi due Canti associano e identificano l’unità della patria alla futura poesia, che avrà anche un’impronta civile, comunicando come la vera e libera arte si distingue e si oppone all’adulazione servile. In particolare, i versi 74-81 del secondo Canto rimarcano il tema del rapporto tra poesia e libertà. Dante con veemenza espone quanto sia riprovevole la committenza e la protezione del potere di qualsiasi “ piccolo principe”, atto che costituisce per il poeta di grandi ideali nient’altro che la “la prostituzione della propria musa”. Pertanto nel quarto Canto la poesia assume la valenza etica più ampia, identificandosi con ogni forma artistica e soprattutto mostrando prometeicamente all’uomo la vita dell’intelletto e dello spirito, che in termini patriottici fa emergere l’esaltazione romantica della coscienza morale e civile dell’umanità.
Bibliografia:
George Byron- La profezia di Dante- Salerno Editrice, 1999
Fulvio Conti- Il Sommo italiano- Carocci Editore, 2021