L’uccisione del giudice Ulloa negli Acta Criminalia del Seicento

L’espressione  “Acta Criminalia” la si ritrova nei vari Archivi dove sono raccolti i processi riguardanti per lo più il clero, ma anche  i laici. Con il termine “ criminalia” ci si riferiva a reati vari, che comprendevano sia  semplici ingiurie verbali e offese, litigi, concubinato, e misfatti ben più gravi quali  ferimenti e omicidi. In relazione ad atti criminali   gravi  quale l’omicidio, Antonio Martone scrive che “ l’episodio più truce” riportato nei  19  fascicoli del Seicento, riguardanti il casale di Pignataro, fu “ l’ uccisione del giudice Ulloa e del suo servitore nell’aprile del 1680”.  

Don Francesco Ulloa era vicario generale della Diocesi di Carinola ( fondata da San Bernardo che ne fu il primo vescovo dal 1087 al 1109),  e fu nominato giudice da Mons. Vincenzo Carafa,  vescovo di Calvi dal 1661 al 1679,  con il compito di amministrare la giustizia nel territorio della Diocesi di Calvi in quanto la giurisdizione ecclesiastica prevedeva che il giudice preposto a tale compito dovesse provenire da altra Diocesi. D’altronde, se da un lato la Chiesa “rivendicava il diritto esclusivo di procedere con propri tribunali con l’accortezza di tutelare la propria immagine, non tutti i giudici ecclesiastici erano attestati su tale linea morbida”, soprattutto quando si trattava di omicidi. Tra tali giudici ecclesiastici intransigenti era da annoverare il suddetto vicario Don  Francesco Ulloa, il cui assassinio costituisce una testimonianza  del banditismo che infestava il  Regno di Napoli   in relazione alla giurisdizione ecclesiastica, pur  presente in misura decisamente minore rispetto al generale  fenomeno di tale criminalità che costituiva non poca apprensione per i Viceré.  Infatti,  Il banditismo infestava tutto il Regno, ma si dimostrava difficile estirparlo, soprattutto nelle Province. Il giudice  Francesco Ulloa si era proposto con determinazione di assicurare alla giustizia ecclesiastica un prete, don Antonio d’Iorio, che aveva formato una vera e propria banda, di cui i primi componenti erano sui due fratelli, parenti, amici e altri manutengoli che aveva arruolato.  I fascicoli degli  Acta Criminalia dell’Archivio diocesano di Calvi riguardanti le azioni criminali di tale banda  testimoniano come tanti furono i misfatti compiuti. Nel 1680, a 29 anni, don Antonio d’Iorio era accusato di essere il mandante di molti omicidi, di cui esecutori materiali erano principalmente i due fratelli “ armigeri scorritori di campagna[…] di pessima fama e condizione: da 4 anni vanno fuggendo et hanno commesso più homicidi per quelli  che si sanno”. Nella  repressione di tale sorta di banditismo, Don Francesco Ulloa aveva il pieno sostegno non solo  del  vescovo di Calvi Vincenzo Carafa, che lo aveva nominato giudice, ma anche del successore Mons. Vincenzo de Silva. D’altronde, come evidenzia Antonio Martone nell’ampia introduzione agli Acta Criminalia, “nel passaggio dal Cinquecento al Seicento il clero italiano è sottoposto al vaglio di giudici non sempre pronti a chiudere un occhio”.

Nell’aprile del 1680 il giudice Ulloa era riuscito a far arrestare don Antonio dopo aver studiato la documentazione giudiziaria del processo per l’uccisione di Errico d’Ambruoso. Si avvicinava il periodo di Pasqua e un parente di don Antonio, anche lui prete,  riuscì a ottenerne la libertà, garantendo che sarebbe rientrato in carcere dopo il periodo delle feste pasquali. Così, il  venerdì del 12 aprile precedente la Pasqua,  Don Antonio fu lasciato libero. La mattina del giorno successivo il giudice, in compagnia del suo servitore, partiva per Napoli. Giunti alle ore 10 presso la taverna di Pignataro, strada regia,  attuale Casilina, svoltavano a sinistra  in direzione di Capua. Riuscirono a fare  solo un breve tratto, dato che gli si paravano davanti due banditi,  con le berrette calate sugli occhi, i quali chiesero ai due da dove provenissero. Avendo come risposta che avevano la mattina lasciato la “Casa del Monsignore”, i due banditi, che erano i fratelli di Don Antonio, “tirarono entrambi una archibugiata” a Don Francesco, che cadde morto da cavallo. Il servitore ebbe la prontezza di scendere da cavallo e scappare, ma uno dei banditi lo inseguì e, quando lo raggiunse, si avventò su di lui colpendolo con diverse coltellate. A tal riguardo, Antonio Martone evidenzia che “ dalla lettura del referto medico sul corpo del servitore si evidenziavano 12 ferite grandi con le cervella da fuori e il taglio di due dita della mano destra, che erano la conseguenza del tentativo del servitore del vicario Ulloa di proteggersi in qualche modo dalle coltellate”. Appena si apprese la notizia nel casale, giunsero a Pignataro i rappresentanti del tribunale ecclesiastico di Calvi, i quali trovarono in tasca del vicario generale della Diocesi di Carinola, giudice don Francesco Ulloa, la corona per recitare il Rosario, delle forbicette per pulire le unghie, la somma di più di 20 ducati e, come conclude Antonio Martone, del tabacco, “ per soddisfare una piccola debolezza umana”.

Bibliografia:

Antonio Martone- Storia di Pignataro in Età Moderna- Il Seicento ( seconda metà)- Giuseppe Vozza Editore, 2017