
Nella sua opera “Atene, la città inquieta” Mauro Bonazzi sintetizza con mirata perizia l’incontro tra Achille e il vecchio Priamo nell’Iliade omerico, scrivendo: “Nella sua tenda [di Achille], nel pieno della notte, appare Priamo, il re di Troia, il padre di Ettore. Supplica l’assassino di suo figlio ( “strinse fra le sue mani i ginocchi di Achille, baciò quella mano/ tremenda, omicida, che molti figli gli uccise”): gli chiede indietro il cadavere, per poterlo onorare con una degna sepoltura. Prevale una dimensione onirica (il re degli assediati è entrato, invisibile, nell’accampamento degli assedianti), ma quello che accade esprime qualcosa di reale. Due uomini, soli, nel silenzio della notte, si confrontano con il dolore, la morte, l’assurdo dell’esistenza umana. E di fronte alla sofferenza di Priamo Achille raggiunge una nuova consapevolezza, realizzando che la sua tragedia non è privata. La tragedia di Achille è quella di Priamo, di tutta Troia, degli uomini. Ma Priamo non si piega, rivuole indietro il cadavere del figlio. Una cerimonia funebre è il tentativo di dare senso e valore umano al fatto bruto di un corpo che si decompone. Questo vuole Priamo e Achille impara finalmente ad accettare la sua condizione di essere mortale. Il mondo intorno a noi probabilmente non ha senso, è un meccanismo cieco che ingloba e distrugge tutto. Gli uomini non sconfiggeranno la morte; la condizione umana è una condizione di privazione. La felicità è solo parziale. Ma anche in questo, nonostante tutto, c’è un valore e una bellezza nell’esistenza umana, nella sua fragilità irripetibile, che bisogna difendere imparando a sopportare.
Achille e Priamo piangono insieme; si guardano, si ammirano silenziosi – in uno di «quei silenzi assoluti dove s’inabissano il fragore della guerra di Troia, il vociare degli uomini e degli dei, il brontolio del cosmo». Nell’altro riconoscono il padre lontano e il figlio perduto: «è la storia eterna dei padri che perdono i figli e dei figli che immaginano i padri e il loro stato nel momento in cui essi capiranno di averli persi». Mangiano insieme. Si scoprono uomini in un mondo indifferente. È difficile immaginare una scena più intensa. Riconoscersi uomini fra uomini, imparare a stare insieme. Il poema si avvia alla fine. Achille concede una tregua per i funerali. Poi la guerra riprenderà: è inutile farsi illusioni, così vanno le cose fra gli uomini.
Qualcosa, però, è successo.”
E’ soprattutto in considerazione di tale suddetto momento rilevante dell’Iliade che Simone Weil (Parigi, 3 febbraio 1909- Ashford, 24 agosto 1943), autrice di un commento originale, e per alcuni tratti sorprendente del capolavoro di Omero, rinviene in tale “poema della forza” una originale forma di spiritualità, tale da formulare un collegamento tra l’Iliade e il Vangelo.
“L’Iliade o il poema della forza” fu scritto da Simone Weil tra il 1936 e il 1939, e sarà pubblicato tra il 1940 e il 1941 sui “Cahiers du Sud” a Marsiglia. In esso traspare la memoria degli eventi di violenza della guerra civile spagnola, a cui aveva partecipato, e di cui era stata diretta testimone.
Conseguentemente, nel suo incessante itinerario interiore di accedere a ciò che definisce “ regno della verità”, Simone Weil si era avvicinata al cristianesimo, alla filosofia e spiritualità greca, in particolare lo stoicismo e il platonismo, come anche alle religioni orientali.
In relazione all’Iliade, la Weil evidenzia che “la giustizia e l’amore non potrebbero mai trovar posto in questo quadro di violenza estrema ingiusta, ma lo colmano comunque della loro luce”. Allorché Priamo, come ben sintetizzato da Mauro Bonazzi, si reca all’accampamento di Achille per reclamare il corpo del figlio, tale incontro disvela, tra l’altro, un’ inaspettata umanità e solitudine dello sterminatore Achille, e pertanto esso costituisce un momento decisivo in cui pianti e rimpianti rivelano, secondo il commento della Weil, la miseria che accomuna sia chi esercita la forza che colui che la subisce. L’uso della forza determina, secondo Simone Weil, un destino in cui “ vincitori e vinti sono fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di sventura per il vincitore come il vincitore per il vinto.”
Ovviamente nella forza rientra l’inganno, il raggiro e tutto ciò che vi è correlato. Non sarà Achille a determinare la fine di Troia, ma l’astuto Ulisse. Simone Weil non prende in considerazione tale parte finale del poema, in quanto intende concludere con un accostamento tra l’Iliade e il Vangelo e che è esplicitato in tal modo : ” Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade è la prima; lo spirito della Grecia vi traspare non soltanto nel fatto che esso comanda di ricercare, a esclusione di ogni altro bene, il regno e la giustizia del nostro Padre celeste, ma anche perché vi è esposta la miseria umana, e questo in un essere divino al tempo stesso che umano“. Per la Weil l’esperienza di tale miseria, che emerge in tutta la sua drammaticità nelle sequenze della Passione di Cristo, è comparabile al genio greco e al pregio della tragedia attica e dell’Iliade.
Simone Weil evidenzia che è presente uno “ spirito” che si è tramesso dall’Iliade al Vangelo nel momento in cui anche un essere divino, assumendo una natura umana, può essere vittima della forza, della sopraffazione e della violenza, che, però sono riscattate parimenti dalla potenza della giustizia, della compassione, dell’amore e della carità.
Il genio della Grecia- rileva ancora la Weil- non è stato accolto oltre i suoi confini, anche se nel corso dei secoli “ ne traspare qualcosa in Villon, Shakespeare, Cervantes, Molière e nella tragedia “Phèdre” di Racine.”
Anche se il collegamento tra il poema omerico e il Vangelo, pur argomentato, può destare dubbi e perplessità, il saggio della Weil sull’Iliade, come rileva Vito Mancuso, ” supera le migliori pagine di Harold Bloom e George Steiner”.