Due poesie della raccolta “Campanule” di Don Salvatore Palumbo

Don Salvatore Palumbo( Pignataro Maggiore, 05-12-1915 – Roma, 27-04-1974) entrò giovanissimo nel Seminario di Calvi e Teano, ove compì anche i suoi studi ginnasiali e parte di quelli liceali, prima di frequentare la facoltà Teologica di Posillipo, conseguendo la laurea in Sacra Teologia “ maxima cum laude”. A 23 anni fu ordinato sacerdote e iniziò in breve tempo ad insegnare Lettere Classiche nel Seminario di Calvi e Teano fino all’anno 1947 in cui ebbe la nomina di Arciprete di S. Giorgio Martire in Pignataro Maggiore, sua città natale. Avrebbe potuto essere un uomo di lettere, un professore universitario ma volle essere un sacerdote , un parroco , un arciprete e un punto di riferimento per i suoi fedeli.
La sua attività pastorale si accompagnava ai suoi interessi storici, ad una passione per la musica classica e per la poesia. In relazione a quest’ultima, l’Arciprete Don Salvatore Palumbo fu autore di una raccolta di poesie dal titolo “Campanule” di cui fanno parte, oltre alla lirica che dà il titolo alla raccolta stessa,” Donum”, “Natale Triste” “Pianto novo”, “A G.S. Bach”, “Preghiera”, “Notturno”.“ Sulla morte di un soldato tedesco”. Tali poesie sono state analizzate in maniera critica daGiuseppe Rotoli  nel testo del 2001 che reca il titolo “L’Arciprete Don Salvatore Palumbo: musicista, poeta e storico”.

La poesia “Campanule”, la più rilevante dell’omonima raccolta, presenta un chiaro messaggio di interiorizzazione della brevità della vita, pregna di fugaci momenti di gioia, di illusioni, di attese e di speranze che si infrangono davanti alla triste realtà della vita umana, tema con cui si sono confrontati tanti grandi poeti. Le campanule, nel corso del tempo, hanno assunto una simbologia diversa ed opposta in rapporto ai vari contesti culturali. Esse sono considerate parimenti simbolo della speranza e della perseveranza come evocazione di immagini cupe , mentre in altri casi viene loro attribuito il significato di ambizione ma anche di civetteria e umiltà.
Nella poesia di Don Salvatore Palumbo il messaggio di brevità della vita è comunicato dalle campanule in quanto delicate pianticelle, la cui fragilità è associata alla semplicità, all’umiltà. Nella loro piccolezza esse comunicano al lettore una sorta di disillusione per essere stati così brevi quei momenti che hanno vissuto, aspettando l’aurora tra il battere del martello di un fabbro, il lieto canto di una dolce fanciulla innamorata , i soavi trastulli di fanciulli. Vi è tutta la comunicazione di un’attesa di un giorno tutto da vivere. Ed invece l’ attesa del sole, della sua ardente fiamma provoca un’inconsapevole fine del tutto nell’arco di un solo giorno per pianticelle così fragili e delicate. Se il poeta Don Salvatore Palumbo sceglie le campanule per comunicare la brevità della vita, nel contempo invita a vivere la pur breve vita con sentimenti di semplicità ed umiltà, ma le suggestioni, le emozioni, le riflessioni di cui è pregna la poesia meritano che ciascuno possa leggerla integralmente per immergersi non solo nella metafora, ma nelle assonanze, nelle rime, nelle varie figure poetiche che contiene. In relazione a ciò, è Il poeta e critico letterario Giuseppe Rotoli che ci conduce a tale mirata analisi critica e stilistica, la quale ci fa cogliere appieno la valenza poetica della lirica

CAMPANULE:

Nel chiuso di un cortile/ ci aprimmo a notte al lume delle stelle./ Passò come carezza/ l’alito lieve di notturna brezza./ Fu tanto bella l’alba e poi l’aurora!/ Sentimmo un fabbro battere il martello,/ sentimmo una ragazza che cantava/ una canzone d’amore,/ trastulli di fanciulle per le scale./ Quando aspettammo la tua fiamma, o sole,/non sapendo che arse, accartocciate,/ ci avrebbe ripiegato sulle foglie./ E fu la morte della nostra vita finita in un sol giorno“.

Quindi trattasi di un componimento di 14 versi, che inizia e finisce con due settenari e si sviluppa con 10 endecasillabi. Sono presenti- scrive Giuseppe Rotoli– rilevanti assonanze come aurora/amore/; stelle/martello/; scale/sole. Inoltre si nota una rima baciata “chiarezza/brezza e una rima interna vita/finita. Se la metafora della brevità della vita, segnata da fugaci gioie, da attese e da illusioni emerge in maniera chiara e semplice, il poeta Rotoli rileva un implicito insegnamento a “rendere edificante la nostra vita e tale sarà se ciascuno di noi riesce a dare senso e significato alla direzione dei nostri giorni”.
Rotoli la definisce “una poesia di luce e di suoni”. La luce si presenta ai nostri occhi in una vasta gamma che va dal lume delle stelle, al chiarore della fiamma e del sole. I suoni, invece, sono percepiti “nell’alito lieve della brezza, nel battere del martello, nel canto della ragazza, nei trastulli dei fanciulli, nell’ardere dei petali”
Pur se la conclusione si mostra abbastanza triste in tale poesia della raccolta omonima, è importante, tuttavia, cogliere quel sentimento di dolcezza e di accento posto sulla fiducia della vita stessa, che, aggiunge Giuseppe Rotoli, non va bruciata o dissipata, ma vissuta nell’umiltà e nella semplicità perché, se le campanule in tale contesto rappresentano la “piccolezza umana”, nel contempo e conseguentemente “ ingigantiscono l’autore del creato, glorificandolo”. Inoltre, sul piano della valenza poetica, lo stesso slittamento del punto di vista rafforza il vigore artistico della lirica, in quanto è la natura che guarda l’uomo e si fa sua maestra; nella “personificazione” delle campanule il lettore non può che identificarsi con esse. Giuseppe Rotoli conclude, ribadendo che nonostante la chiusa finale, “ la poesia è piena di gioia, rinforzata dall’endecasillabo solenne e lieve, zampillante e frizzante”

La composizione poetica che reca il titolo “A J.S. Bach” costituisce “un posto speciale” nella raccolta “ Campanule” di Don Salvatore Palumbo, in quanto nella produzione musicale di Don Salvatore Palumbo risulta chiara l’influenza musicale della grande personalità di Johann Sebastian Bach:

“ Se mai nessuno me l’avesse detto/ che esiste un altro mondo, esiste Dio,/ l’avrei scoperto dietro quelle voci/ dell’organo che prega e geme e canta”.
Quello che avviene in me non so dire/ scompare tutto ciò che mi circonda/ e avvolto in dolce spire sono rapito/ in una rota( di celeste coro?).
Tu m’inebri di Dio, tu m’inabissi/ in un mare di fede e di speranza/ e, passando alle cose d’ogni giorno/ la nostalgia mi punge d’un ritorno./”

Molto semplice ed immeditato si rivela in tale poesia il contenuto letterale, con l’io narrante che, nella musica di Bach, trova l’ulteriore prova dell’esistenza di Dio: “ Se mai nessuno me l’avesse detto/ che esiste un altro mondo, esiste Dio,/ l’avrei scoperto dietro quelle voci/ dell’organo che prega e geme e canta”.
Quindi ciò che colpisce nella prima quartina è quell’”organo che prega e geme e canta”, come un essere umano. Nel prosieguo vi è una strofa dai ripetuti echi danteschi del Dante del Canto finale della Divina Commedia, allorché il poeta si mostra incapace di descrivere l’estasi mistica della sua visione del Paradiso: “Quello che avviene in me non so dire/ scompare tutto ciò che mi circonda/ e avvolto in dolce spire sono rapito/ in una rota( di celeste coro?)”.
Anche la terza quartina è un mirabile riferimento dantesco, rivisitato con la nostalgia dell’allontanamento da Dio, vissuto nell’esperienza dell’arte.
Ovviamente, rimarca Giuseppe Rotoli, nella parte finale della sua analisi stilistica, l’intento del poeta è quello di tramettere a vari livelli, coscienti, inconsci, inconsapevoli, oggi diremmo sublimali, l’esperienza poetica della grandezza di Bach, della sua musica, della sua divina potenza.