Monaldo Leopardi e il figlio Giacomo: rapporto d’affetto ma idealità diverse

Monaldo Leopardi

In una lettera a Pietro Brighenti del 3 aprile 1820, a due anni del primo incontro di Giacomo Leopardi con Pietro Giordani nella prima visita del Giordani a Recanati, Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, esprimeva la sua convinzione che ” alla venuta del Giordani i suoi figli avevano cambiato natura”. Oltre che a Giacomo, Monaldo si riferiva a Carlo, che pure intratteneva rapporti di amicizia con Pietro Giordani. Proprio al Giordani, nella lettera del 26 settembre 1817, Giacomo riferiva di avere un legame di particolare affettività con Carlo Orazio, ” suo confidente universale e partecipe tanto o quanto degli studi e delle letture mie”. Monaldo era preoccupato che tali due figli, soprattutto Giacomo, potessero allontanarsi dallo “spirito patrio municipale” per avvicinarsi a quello “spirito nazionale” che lui con determinazione osteggiava. Monaldo, nel “Catechismo filosofico”, pubblicato nel 1832, avrebbe rimarcato in maniera esplicita e diretta che “ la patria è precisamente quella terra in cui siamo nati, e in cui viviamo con gli altri cittadini, avendo comuni con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi, le pubbliche proprietà e una moltitudine d’interessi e rapporti”.

Nei primi anni giovanili l’animo di Giacomo Leopardi, in relazione alla storia e all’identità degli Italiani, rivela un travaglio interiore complesso, pregno di emozioni e disinganni, di sogni e frustrazioni che lo stesso poeta compendia in quella esperienza di ” studio matto e disperatissimo” nella biblioteca del padre. Infatti, se il 30 aprile del 1817, nella lettera indirizzata all’amico Giordani, Giacomo rivelava di ” disprezzare Omero, Dante, tutti i classici” e di ” “calpestare” tutto quanto si relazionava a ciò che era stato scritto in italiano, nell’anno successivo avrebbe composto, invece, due Canti civili e “patriottici”: “All’Italia” e “”Sopra il monumento di Dante”.

Giuseppe Galasso evidenzia che la successiva ” italianità” di Giacomo, il principio ideale e storico del suo ” sentirsi italiano”, che tanto avrebbe crucciato il genitore, oltre ad essere graduale, si mostra più memorabile in quanto fondato sulla letteratura, su una ” conversione letteraria e culturale”, che lo stesso poeta avrebbe esplicitato nello “Zibaldone”.

Se a Giacomo Leopardi, come rimarca Franco Venturi, solo a partire dal 1850, sarebbe riconosciuto di essere diventato in Europa “ il simbolo della poesia italiana, e, in qualche modo, del paese intero, del vuoto storico che era venuto producendosi tra il passato e il presente dell’Italia”, è pur vero che in vita, data la fama che i suoi scritti stavano già riscuotendo, la sua Recanati lo volle designare deputato dell’Assemblea Nazionale convocata a Bologna in seguito ai moti del 1831.

Nell’Epistolario tra Monaldo e il figlio si evince che fu lo stesso Monaldo a dare notizia a Giacomo che era in corso la procedura per la quale si proponeva la nomina del figlio a deputato di Recanati all’Assemblea di Bologna. Il padre informava nel contempo Giacomo che si sarebbe adoperato per una opposizione alla nomina, esprimendo la certezza che sarebbe riuscito a convincere il Comitato a non concedere tale rappresentanza al figlio. Nella missiva del 21 marzo 1831, tre giorni successivi alla prima lettera, Monaldo scriveva a Giacomo che la nomina era stata decisa “ con assoluta unanimità di voti” e che in fondo pur “ non dispiaciuto che la Città avesse dimostrato la sua fiducia nel figlio”, si mostrava fiducioso che Giacomo avrebbe evitato di “ compromettere se stesso e la sua Famiglia”, e conseguentemente, da “ saggio” figliuolo, non avrebbe accettato, informando educatamente la municipalità recanatese. Con toni sempre affettuosi e rispettosi, Giacomo rinunciò alla nomina, ma ormai era maturati gli intenti di lasciare Recanati per accettare di far parte attivamente a Firenze della comunità culturale fondata dall’amico Giovan Pietro Vieusseux.